| AC/DC "Black Ice" Columbia 2008 voto: 8 Giovanni Barbo (Metallus)
Sono appena arrivati sugli scaffali dei negozi: non solo l'album, ma anche discografie complete in bella mostra e t-shirt stampate apposta in occasione di quello che è probabilmente l'album più atteso, in ambito hard rock, di tutto l'anno. L'essenza del rock è tutta qui, in questi pezzi semplici e diretti, lontani anni luce dai tecnicismi, separati da mille galassie dalle sonorità laccate. Qui si respira realtà, a dispetto dei milioni di dischi venduti che ad altri hanno montato la testa. Qui c'è energia da vendere, e il chorus di "Rock 'N Roll Train" stabilisce immediatamente che gli AC/DC sono tornati. Ma non è tutto oro ciò che luccica. O almeno, non si vede subito, coperto com'è da croste di fango e sporcizia: "Black Ice" è un album che cresce ascolto dopo ascolto, entrando nelle viscere dell'ascoltatore, costringendolo a ricredersi dopo l'iniziale incredulità di fronte a cotanta semplicità, un'incredulità che porta a chiedersi "Beh, tutto qua?". Fra gli episodi più contagiosi, la cavalcata di "Wheels" e i ritmi sincopati di "Decibel", con Angus Young che sale in cattedra per regalare riff destinati ad imprimersi nella memoria. Del resto è proprio qui, nel cuore dell'album, che "Black Ice" offre gli spunti più interessanti, che proseguono nelle dissonanze sgangherate di "Stormy May Day". Le parole sparate come cartucce, secche ed efficaci, in "Big Jack" e le venature melodiche di "Rock 'N Roll Dream" sono altre facce convincenti di un album che riporta rumorosamente alla ribalta la band, rappresentata dai riff da Angus Young e dalla voce di un Brian Johnsono forse non in gran forma, ma sempre secondo a nessuno quanto a personalità e capacità di imprimere il proprio marchio personale ad ogni singola nota. Semplicemente splendida nella sua essenzialita la conclusiva title track, che chiude un cerchio fatto di poche note dannatamente efficaci, ripetute come un martello per saldarsi bene nella nostra mente. Un difetto? Quindici pezzi sono forse troppi, considerando che obiettivamente i filler ci sono, fisiologicamente, e che i testi spesso altro non sono che odi al rock piene zeppe di cliché. D'altra parte l'attesa è stata lunga, lunghissima, e la band australiana di cose da dire e soprattutto da suonare ne aveva parecchie. E noi volevamo ascoltarle.
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